Tutto comincia con le terme di Antonino. Un tempo erano il simbolo della grandezza romana, un complesso immenso dove i cittadini si rilassavano tra vasche di marmo e giardini lussureggianti. Oggi, tra le colonne cadute e i mosaici consumati dal tempo, si può ancora immaginare il brusio delle chiacchiere, il rumore dell’acqua che scorreva e il profumo degli olii usati per i massaggi. Salire sulla collina che domina le terme significa avere davanti a sé una vista mozzafiato: il golfo di Tunisi, lo stesso che un tempo era solcato dalle navi cartaginesi, cariche di merci preziose e di sogni di conquista.

Poi c’è il Tophet, il santuario dedicato a Tanit, la dea fenicia della fertilità e della luna. Questo luogo, dove un tempo si praticavano sacrifici rituali, è avvolto da un’aura di mistero. Le stele di pietra, alcune con iscrizioni in fenicio, sono allineate come soldati in un esercito silenzioso. Gli archeologi discutono ancora sul significato di questi riti, ma una cosa è certa: qui, tra queste pietre, si sente ancora la presenza del sacro, come se il tempo non fosse passato.

Ma Cartagine è anche teatro di battaglie epiche. Qui, tra queste colline, Annibale preparò le sue armate per sfidare Roma, e qui, dopo secoli di lotte, i Romani distrussero la città nel 146 a.C., cospargendone le rovine di sale per maledirne il ricordo. Eppure, Cartagine rinacque, prima come città romana e poi come simbolo di una civiltà che non voleva essere dimenticata. Oggi, passeggiare tra le rovine del quartiere punico significa camminare sulle stesse strade dove un tempo i mercanti fenici contrattavano il prezzo delle spezie e dei metalli preziosi.

E poi c’è il museo di Cartagine, un luogo dove i reperti raccontano la storia di questa città leggendaria. Tra le vetrine, si possono ammirare maschere di terracotta che rappresentano le divinità fenicie, amuleti per proteggere i naviganti, e monete coniate con l’effigie di Melqart, il dio protettore della città. Ma il pezzo forte è il sarcofago della sacerdotessa, un’opera scolpita nel marmo che rappresenta una donna con un’espressione serena, come se dormisse un sonno eterno. È un simbolo della ricchezza culturale di Cartagine, una civiltà che univa l’arte egizia, greca e fenicia in qualcosa di unico.

Ma Cartagine non è solo storia antica. È anche un luogo dove il presente e il passato si fondono. Il quartiere moderno, con le sue case bianche e i caffè affacciati sul mare, sembra dialogare con le rovine. Sedersi in un locale sul lungomare, sorseggiare un tè alla menta e guardare il tramonto che tingere di rosso le acque del golfo, significa sentire il legame indissolubile tra questa terra e il suo passato.

E poi c’è il mito di Didone, la regina fenicia che, secondo la leggenda, fondò Cartagine dopo essere fuggita da Tiro. Il poeta Virgilio racconta che Didone, tradita dall’amore di Enea, si uccise su una pira funebre, maledicendo i Troiani e i loro discendenti. Ancora oggi, tra le rovine del palazzo di Didone (o almeno, quello che la tradizione indica come tale), si sente l’eco di quella tragedia. È un luogo dove la leggenda si mescola con la storia, e dove, chiudendo gli occhi, si può immaginare la regina che cammina tra le sue mura, sognando un futuro di gloria per la sua città.

Cartagine è un luogo che non si visita, si vive. È il profumo del gelsomino che cresce tra le rovine, il suono delle onde che si infrangono sulla spiaggia vicina, il sorriso dei bambini che giocano tra le pietre antiche. È un posto dove, anche solo per un giorno, si può sentire il battito del cuore del Mediterraneo, dove le civiltà si sono incontrate, scontrate e fuse, lasciando un’eredità che ancora oggi ci parla. Perché Cartagine non è morta: è viva, nelle sue pietre, nel suo mare, e nelle storie che continua a raccontare.